Buona parte delle discussioni presenti nella filosofia della mente contemporanea verte sul problema di come conciliare una visione materialistica del mondo, con la natura apparentemente immateriale dei fenomeni psicologici (Kim, 2000). Il dualismo mente – corpo, da Cartesio in poi, pone questioni filosofiche importanti: d’altra parte le proprietà della materia, nel nostro caso il corpo, e le proprietà del mentale sono radicalmente diverse. Non essendoci, da un punto di vista logico, alcuna proprietà condivisa da mente e corpo, ci si chiede come possano interagire (Gozzano, 2007).
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Indice
Cosa intendiamo per ‘mente’?
La rilevanza filosofica del termine mente sono mutati nel corso dei secoli. Nel suo significato filosofico originario esso rimandava al termine greco ψυχή, denotando l’anima rationalis aristotelica ma, allo stesso tempo era legato anche al termine ἄνεμσς («soffio, vento», da cui il lat. anĭma), che a sua volta rimandava a πνεῦμα (traducibile con «spirito»). A lungo, però, mens non fu termine centrale del lessico filosofico perché, nella stessa area semantica, assai maggiore importanza ebbe il termine, spesso considerato sinonimo, di anima. Questa situazione cambiò soltanto con Cartesio: secondo la visione cartesiana, infatti, la mente costituisce un ambito ontologico fondamentale, autonomo rispetto all’ambito ontologico della corporeità. Tutta la filosofia che nei secoli successivi si occupò di mente può essere interpretata come la storia di una progressiva, e forse solo parzialmente compiuta, emancipazione dalla visione cartesiana. […]
La riflessione sulla mente è antica quanto la filosofia, ma è solo nel Novecento che la filosofia della mente si è resa disciplina autonoma. I prodromi della concezione moderna della mente vanno ricercati nell’opera di Cartesio, che concepisce la mente come interamente cosciente e ontologicamente autonoma rispetto alla corporeità. Le successive evoluzioni concettuali che culminano nell’opera di Freud mostrano che la mente è un ‘oggetto’ assai più complesso, che va ben al di là della percezione dei fenomeni coscienti. Verso la fine dell’Ottocento la riflessione sui fenomeni mentali inizia ad avvalersi di metodi sperimentali ma è solo a metà del secolo successivo che nasce un’autonoma branca della filosofia che si occupa dell’epistemologia e dell’ontologia della mente. Dopo la metà del secolo, viene messa in crisi l’idea materialistica della riduzione degli eventi mentali a quelli fisici e la riflessione teorica procede nel senso della identificazione delle peculiarità dei processi mentali e del loro rapporto con la realtà fisica. Infine, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso la filosofia della mente ha abbandonato la pura analisi concettuale ed è entrata in stretto contatto con la ricerca empirica, particolarmente con le scienze cognitive, le neuroscienze e la teoria dell’evoluzione, che nel frattempo hanno avuto un corrispondente, impetuoso sviluppo
Treccani
L’assoluta incommensurabilità tra ‘fisico’ e ‘mentale’
Il primo ad introdurre tale questione nella filosofia analitica contemporanea è H.Feigl, nel suo saggio “The ‘Mental’ and the ‘Physical’”del 1958.
Mentale | Fisico |
Soggettivo(privato) | Oggettivo (pubblico) |
Non spaziale | Spaziale |
Qualitativo | Quantitativo |
Dotato di scopo | Meccanico |
Mnestico | Non mnestico |
Olistico | Atomistico |
Emergente | Composizionale |
Intenzionale | ‘Cieco’, Non Intenzionale |
I criteri per mentale e fisico (da Feigl, 1967, p. 29).
Cartesio affermava che l’interazione avveniva tra due sostanze, res cogitans e res extensa, ma tale posizione è incompatibile con il materialismo scientifico contemporaneo per diversi motivi. Secondo il materialismo scientifico, infatti, l’intera realtà è costituita da un’unica sostanza: la massa-energia e da quanto contemplato dalla fisica di base (particelle elementari, onde, forze, ecc.). Tuttavia anch’essa solleva non pochi dubbi filosofici ed epistemologici, quando cerca di spiegare i fenomeni mentali (Paternoster, 2002).
Quale rapporto tra mente e materia?
Cos’è uno stato mentale? Quale rapporto intercorre fra stati mentali e stati cerebrali? La visione fisicalista della realtà implica che soltanto processi ed enti fisici abbiano proprietà causali, anche se, le spiegazioni qualitative e teleologiche sembrano indispensabili per comprendere i fenomeni biologici e psicologici.
Ci troviamo di fronte ad una questione prettamente filosofica: il problema della causalità mentale (conosciuto anche come il problema della sovradeterminazione causale).
Tale questione può essere riassunta nella domanda: il comportamento è causato da ragioni qualitative o da cause quantitative?
Ad esempio, la depressione dipende da motivazioni e ragioni dipendenti dalla storia relazionale di un individuo o è determinata dallo stato biochimico del cervello? E quale rapporto intercorre tra i fenomeni mentali e gli stati cerebrali? In altre parole, quale ruolo attribuire alla mente in una prospettiva metafisica scientifica che contempla solo l’esistenza del fisico?
Le posizioni epistemologiche riduzioniste
Il riduzionismo mira a sostituire le leggi psicologiche con le leggi neurofisiologiche, ritenute più fondamentali, fino ad arrivare alle leggi della fisica in un modello gerarchico della conoscenza di tipo fiscalista.
Il Neopositivismo ha sviluppato, quindi, diversi modelli di riduzione interteorica nell’intento di unificare la scienza (Carnap, 1938). La riduzione interteorica comporta sempre l’intreccio di due piani: il piano epistemologico e il piano ontologico (Paternoster, 2002). Il riduzionismo epistemologico può essere concepito “come un ‘metodo’ o, meglio, un ‘programma’ di spiegazioni per riduzione, che appaiano riuscite, almeno localmente (Boniolo, Dalla Chiara, Girello, Sinigaglia, Tagliagambe, 2002).
In questo senso è una delle strategie euristiche centrali della ricerca scientifica (Peruzzi, 2000). In altre parole, la psicologia viene ridotta alle neuroscienze, ma rimane pur sempre valida per descrivere i fenomeni del proprio livello esplicativo.
Nel riduzionismo in senso ontologico, invece, si presuppone l’esistenza solo dei fenomeni della disciplina riducente. Nel nostro caso, solo i processi neurali sono ritenuti reali e la psicologia deve essere sostituita dalle neuroscienze (cfr. Bunge, Ardila, 1987).
Sono qui presentate le principali posizioni epistemologiche di quest’orientamento sul rapporto mente-corpo e le principali obiezioni.
I processi mentali sono riducibili a stati neuronali
La riduzione interteorica consiste nel trovare un insieme di leggi-ponte, o regole di traduzione, per connettere le terminologie delle diverse discipline. Queste leggi rappresentano un insieme di regole che devono specificare le equivalenze tra i diversi vocabolari. Sono stati proposti diversi modelli per attuare questa riduzione interteorica (si veda Carnap 1938, Schaffner 1967, Wimsatt 1979, Churchland 1986, Nagel, 1961). Gli autori, per giustificare la propria posizione, prendono, come esempio, le riduzioni interteoriche avvenute nella fisica e nella biologia.
NO: rispetto ad altri casi di riduzione interteorica, avvenuti in passato nella ricerca scientifica, la riduzione della psicologia alle neuroscienze rappresenta un caso particolare, perché le due teorie appartengono a livelli epistemologici diversi (McCauley, 1986). A causa di questa radicale eterogeneità, si ritiene impossibile una connessione logica tra le due terminologie (Fodor, 1974).
La mente è identica al cervello
Un’altra forma di riduzionismo consiste nell’identificare l’attività mentale con l’attività cerebrale, seguendo la teoria dell’identità psicofisica. Gli stati mentali possono causare stati fisici, perché sono stati fisici (Smart, 1959; Feigl, 1958).
No: l’identità psicofisica viene assunta a priori e non viene spiegata, in quanto non è coperta dalle leggi- ponte necessarie. Inoltre la teoria dell’identità è molto vincolante e difficile da sostenere alla luce della critica della realizzabilità multipla (Putnam, 1968).
Questa critica consiste nell’affermare che uno stesso fenomeno psicologico può poggiarsi su diversi substrati neurali. La teoria dell’identità forte, infatti, implica la tesi che sia una persona che un polipo, quando sono in un medesimo stato mentale, sono in un identico stato cerebrale, il che è inverosimile. Ciò implica che stati mentali e stati neurali non siano, in senso forte, identici. Tale critica, ha minato la credibilità di questa proposta filosofica (Paternoster, 2002). “Oggi, la maggior parte, se non tutti i teorici dell’identità si limitano a difendere la teoria dell’identità delle occorrenze” (Gava, 1994, p. 172).
E’ una tesi più debole e generale, che implica che lo stesso stato mentale può poggiare su processi cerebrali dinamici diversi (Gava, 1994).
La mente non esiste
Esiste solo il cervello o, utilizzando le parole di Crick (1994), non siamo che ‘un ammasso di neuroni’. Questa è la forma più radicale di riduzionismo, assunta dall’approccio eliminativista, che considera la coscienza un epifenomeno illusorio. La psicologia del senso comune deve essere sostituita dalle neuroscienze, in quanto è considerata una teoria falsa che va eliminata (Churchland, 1981). Secondo questo approccio, la riduzione teorica è lo scopo ultimo della ricerca scientifica ed è considerata come un programma teorico che deve guidare la ricerca sperimentale.
Obiezione: quest’approccio non è in grado di giustificare il successo predittivo della psicologia del senso comune (Paternoster, 2002). Inoltre, concependo le teorie di livello superiore (la psicologia) come applicazioni speciali delle teorie di livello inferiore (le neuroscienze), ritenute più fondamentali, dà per scontato che la psicologia umanistica abbia gli stessi obbiettivi della psicologia sperimentale, ossia l’indagine dei fatti psichici come eventi naturali (Bechtel, 1995). Più che eliminare, perché la scienza in generale non elimina nulla (Gava, 1994), è più corretto parlare di integrazione tra diversi tipi di conoscenze.
Queste critiche hanno aperto la strada ai sostenitori di una ‘terza via’, intermedia tra un dualismo non più accettato dalla mentalità scientifica e un monismo fiscalista paradossale nelle sue conclusioni. Partendo, quindi, dalla constatazione che forme di riduzionismo estreme implicano impasse di tipo filosofico di non facile soluzione, successivamente sono state proposte forme di riduzionismo più moderate, basate su delle spiegazioni riduttive (Chalmers, 1996).
Alla ricerca di una terza via: dal funzionalismo all’emergentismo
Funzionalismo
Una terza via tra dualismo e riduzionismo, è stata proposta con il funzionalismo: gli stati mentali vengono considerati stati funzionali e in quanto tali sono indipendenti dal substrato materiale su cui poggiano (Putnam, 1960). La mente, nel cognitivismo classico, è un’attività disincarnata (Bottaccioli, 2005). I processi cognitivi sono considerati come processi computazionali di un software, la mente, su di un hardware, il cervello. Il funzionalismo dà la possibilità di render conto del mentale in modo antiriduzionistico, ma pur sempre all’interno di una prospettiva materialistica. In tal modo si preserva l’autonomia del mentale. Tuttavia, non è in grado di spiegare la soggettività e le esperienze qualitative intrinseche agli stati funzionali, i cosiddetti qualia (Chalmers, 1996). Inoltre, la nostra mente, seppur caratterizzata da stati funzionali, è pur sempre incarnata in un sistema biologico, profondamente diverso dall’hardware di un computer (Edelman, 1997).
Il mentale sopravviene?
Un’altra versione, anti-riduzionista, della teoria dell’identità c’è data dal ‘monismo anomalo’ di Davidson (1970). Questa versione si basa sul concetto di sopravvenienza, una categoria interpretativa intermedia tra quelle di riduzione e di emergenza (Peruzzi, 2000), nata nell’ambito della filosofia morale (si veda Moore 1903, Hare 1952).
I processi mentali sopravvengono sui processi fisici e ne sono dipendenti, tuttavia non sono riducibili a questi, perché gli eventi mentali non possono essere descritti tramite il linguaggio della fisica (Davidson, 1970). Ciò comporta l’impossibilità di formulare leggi psico-fisiche a causa dell’irriducibile carattere olistico del mentale. Tuttavia, il ‘monismo anomalo’, rientrando pur sempre in una visione fiscalista, porta alle stesse aporie del riduzionismo riguardo al valore causale dell’esperienza cosciente. Infatti, se gli stati mentali sopravvenienti dipendono in senso forte dagli stati fisici, non si comprende che ruolo causale abbiano, ricadendo in una forma di riduzionismo radicale. D’altra parte, se la dipendenza è intesa in senso debole, tale sopravvenienza assume i connotati di una particolare forma di epifenomenismo del mentale (Kim, 2000), in cui la coscienza, ossia la nostra esperienza personale, di fatto, non può modificare il sistema nervoso.
Il mentale come fenomeno emergente
Il concetto di emergenza sottolinea il carattere di novità, ‘non predicibilità’, ‘non deducibilità’ delle proprietà mentali (Carli, 2000).
Secondo questa prospettiva il mentale sarebbe una proprietà emergente ad un dato livello di complessità, proprietà capace di autodeterminarsi retro-agendo sul substrato neurale dal quale origina. Un sasso e una mente sarebbero uguali dal punto di vista della natura degli elementi costitutivi, ma avrebbero diverse proprietà di organizzazione che darebbero luogo a strutture di complessità differente.
L’emergentismo presuppone una concezione monista dell’universo, stratificato su diversi livelli irriducibili di realtà, corrispondenti grosso modo alle divisioni disciplinari fra fisica, chimica, biologia e sapere umanistico (De Palma, Pareti, 2004). In questa forma di materialismo emergentista, dinamico e pluralista nel considerare le differenti leggi e proprietà legate al mentale e al fisico, viene respinto il “riduzionismo ontologico” per abbracciare “il riduzionismo epistemologico”, ovvero una riduzione moderata di leggi e teorie, in cui i diversi livelli non sono riducibili, ma neanche completamente indipendenti (Bunge, 1980). Il problema della causazione mentale, invece, verrà affrontato in un riquadro epistemologico diverso dal fiscalismo, a causa delle aporie presenti in quest’ultimo.
La coscienza: un problema difficile
Da un punto di vista scientifico, nel comprendere la relazione mente-corpo, è l’esperienza cosciente a porre i principali problemi filosofici: o l’esperienza è ritenuta illusoria, come vogliono i riduzionisti radicali, e quindi la coscienza è un epifenomeno e non avendo alcun valore adattivo, non si capisce a cosa possa servire. Diversamente, se si ritiene che abbia una rilevanza causale, non essendo evidentemente ‘identica’ ad uno stato neurale, o si è costretti a postulare l’esistenza di leggi psicologiche irriducibili (Fodor) o di un’energia psichica non fisica (Eccles), ricadendo nelle medesime contraddizioni del dualismo cartesiano (Battacchi, 2006).
Tali contraddizioni si rivelano paradossali, se si tiene conto del fatto che, nella nostra quotidianità, mente e corpo sono sempre compresenti e ‘mescolati’ insieme.
Bisogna notare che il riduzionismo ontologico trova difficoltà così radicali nell’attuare il proprio progetto solo per quanto riguarda l’esperienza cosciente. In linea di principio, infatti, è possibile spiegare con tale approccio la maggior parte dei processi cognitivi e gran parte dei comportamenti (Chalmers,1996).
A cosa serve l’esperienza?
I fenomeni mentali legati alle funzioni cognitive possono essere spiegati mediante meccanismi neurali o computazionali (in quanto, come abbiamo visto, sono definibili funzionalmente), ma quando ci si trova di fronte all’esperienza soggettiva, ossia al vissuto, questo tipo di spiegazione fallisce e il processo scientifico è costretto a fermarsi e ad interrogarsi sul proprio procedere.
Tale questione può essere riassunta dalla domanda: perché l’esercizio di queste funzioni è accompagnato dall’esperienza? Le spiegazioni riduttive si rivelano impotenti di fronte a questa domanda.
Questo porta ad un paradosso rilevato da Chalmers: riusciamo a spiegare tutto, tranne gli aspetti qualitativi dell’esperienza, aspetti che forniscono il senso stesso della ricerca.Il problema è che l’esperienza, illusoria o meno, è proprio ciò che si dovrebbe spiegare, perché le nostre domande, che siano scientifiche o no, partono inevitabilmente da essa. L’esperienza è l’explanandum da cui parte la ricerca scientifica stessa e per questo non può essere eliminata (Chalmers, 1995): infatti, che senso avrebbe spiegare i correlati neurali del dolore, se non provassimo e sapessimo già a livello esperienziale, cos’è il dolore?
Cambiare paradigma per comprendere la relazione mente-corpo
La scienza, per comprendere il fenomeno della coscienza, deve accettare l’irriducibile eccedenza e complessità della realtà rispetto ad ogni formulazione teorica, per sua natura locale e parziale.
La scienza, infatti, procede mediante costruzioni, teorie, che sono utili da un punto di vista pragmatico, ma non ci rivelano l’essenza, intera e definitiva, della realtà.
“Il mondo non ci si presenta nettamente diviso in sistemi, sottosistemi, ambienti e così via. Queste sono divisioni che facciamo noi in vista di vari scopi. E’ evidente che differenti comunità di osservatori trovano comodo dividere il mondo in modi diversi e sono interessate a diversi sistemi in diversi momenti […]”
Varela, 1978,p.83
Riscoprire il ruolo effettivo dell’esperienza cosciente
Come abbiamo visto, ci sono diversi modi di intendere l’esperienza nei moderni approcci neuroscientifici allo studio della coscienza e del rapporto mente-corpo. Può essere considerata un epifenomeno di nessuna utilità per la ricerca scientifica (eliminativismo); il semplice effetto di un substrato neurale(riduzionismo); o, al contrario, se ne riconosce la non- riducibilità e la valenza causale, diventa un oggetto di studio da tener presente.
Per costruire dei ponti tra il punto di vista in prima persona e quello in terza persona, assume un’importanza fondamentale un’analisi critica dell’esperienza, la quale ci fornisce i dati-ponte tra le due prospettive.
Tramite la presa di consapevolezza dell’intrinseca intersoggettività di ogni forma di oggettività, è possibile giustificare epistemologicamente e integrare i diversi approcci della psicologia contemporanea: non c’è un approccio più fondamentale dell’altro, ma nella loro incommensurabilità, rappresentano prospettive diverse e ugualmente importanti, ognuna con i propri vantaggi e i propri limiti. La commensurabilità tra i diversi approcci può avvenire solo attraverso la pratica concreta, ovvero, la costruzione di metodologie e sistemi di misura adeguati alla ricerca sul campo. Attraverso l’esperienza pragmatica, il dialogo tra i diversi approcci diviene possibile, ma serve un approccio condiviso alla conoscenza.
E per fare ciò, urge una riflessione nuova. Un cambio di paradigma.
In questo sito approfondiremo un approccio alla studio della coscienza fenomenologico (ed ermeneutico), sia a livello teorico che clinico. E nell’ambito dello studio della coscienza, questo approccio ha portato a grandi intuizioni e scoperte. Parleremo, quindi, del lavoro di F. Varela e della nascita della Neurofenomenologia (continua a leggere).

Bibliografia
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