In biologia si è pensato a lungo che i geni predeterminassero non solo i nostri tratti somatici ma anche il nostro comportamento, la personalità e le emozioni. Una teoria che vedeva l’uomo totalmente governato rispetto alla sua biologia. L’idea di fondo era che, conoscendo ogni minimo componente di un auto, si potesse prevedere il suo comportamento, lo stile di guida, la direzione presa, i suoi punti di forza e debolezza. In realtà ci si è accorti che conoscere il libretto d’istruzioni, il nostro corredo genetico, non ci dice molto su chi siamo. O meglio, dice solo una parte.
Nuove scoperte in ambito neuroscientifico hanno mostrato, infatti, come altri fattori risultino fondamentali nel co-determinare la nostra individualità: sono gli stimoli ambientali (interni ed esterni), cui ogni individuo ed organismo è soggetto quotidianamente nel corso della propria vita. La branca della biologia molecolare che studia i cambiamenti nell’attività dei geni, causati non da mutazioni genetiche ma, appunto, dall’ambiente, prende il nome di epigenetica. Importanti, per quello che riguarda il nostro ambito di interesse, ovvero la salute mentale e il benessere, sono i diversi studi e ricerche che hanno iniziato a concentrarsi sul ruolo dell’apprendimento e delle interazioni sociali e sui loro effetti visibili a livello cerebrale.
In questo articolo esploreremo le diverse scoperte scientifiche che hanno messo luce sui processi biologici legati all’interazione tra organismo e ambiente. Parleremo di neuroplasticità, neurogenesi e delle prospettive aperte dallo studio sulla neurobiologia delle emozioni. Ne esce un’immagine del nostro modo di funzionare, che scardina molte certezze della ricerca scientifica tradizionale e del senso comune.
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Indice
- Epigenetica e il suo ruolo nell’apprendimento nella memoria
- Le esperienze ripetute e la regolazione epigenetica
- Il ruolo dell’ambiente
- Istituzionalizzazione e impatto sul cervello
- Come accade? La Neuroplasticità
- Apprendimento e trasmissione sinaptica
- Le emozioni co-determinano la plasticità?
- I pensieri possono influire sulla plasticità neurale?
- La neurogenesi: un pò di storia
- La neurogenesi: evidenze sperimentali
- Neurogenesi e il ruolo dell’ambiente
- Come possiamo definire la neurogenesi?
- Neurogenesi durante lo sviluppo
- Neurogenesi nell’adulto
- L’importanza del ‘prendersi cura’ sullo sviluppo del cervello
- L’epigenetica nelle diverse fasi della vita
Per approfondire
- La Psiconeuroendocrinoimmunologia: una prima definizione
- PNEI: spetti storici
- Il ruolo delle emozioni: tra mente e corpo
- La scoperta dei neuropeptidi
- Emozioni, stress e salute
- Prospettive
Epigenetica e il suo ruolo nell’apprendimento nella memoria
Treccani
Le esperienze ripetute e la regolazione epigenetica nel cervello
Uno dei più importanti neuroscienziati ad aver individuato un ponte tra geni e ambiente e la loro stretta interrelazione, è il premio Nobel per la medicina Eric R. Kandel. Il suo pensiero, riassunto in un celebre articolo del 1998, è che indubbiamente tutti i nostri processi mentali (pensiero, comportamento, emozioni) rispecchino funzioni cerebrali, ma che tali processi non siano necessariamente predeterminati dai nostri geni, bensì possano subire l’influenza decisiva da parte di fenomeni come l’esperienza e l’apprendimento, capaci di esercitare un’azione retroattiva nel nostro cervello, modificandone l’attività dei geni e andando ad agire sull’interconnessione e la funzionalità neuronale.
Stesso DNA, ambienti diversi
Una prova consolidata dell’influenza di fattori epigenetici sulla nostra carta d’identità biologica è fornita dagli studi condotti su gemelli omozigoti (stesso corredo genetico) cresciuti in ambienti diversi.
Contrariamente alla visione deterministica secondo la quale due individui con lo stesso genoma svilupperanno le stesse caratteristiche somatiche, di personalità e comportamentali, ci sono prove di come, in realtà, da fattori ambientali diversi possano evolversi due individui diametralmente opposti.
Inoltre la differenza tra gemelli omozigoti si può riscontrare nella possibilità di sviluppare o meno una patologia, ad esempio il diabete di tipo II (ad insorgenza tardiva), anche nel caso in cui sia riconosciuta una predisposizione genetica. Alcune ricerche riportano, infatti, come a volte sia possibile che la malattia si sviluppi in un solo gemello, facendo presumere l’influenza di fattori epigenetici in entrambi gli individui.
Il ruolo dell’ambiente
Come scrive il premio Nobel Eric Kandel (2007, p.51): “la regolazione sociale dell’espressione genica predispone alle influenze sociali tutte le funzioni corporee, ivi incluse le funzioni cerebrali. Queste influenze sociali saranno incorporate biologicamente attraverso l’espressione modificata di specifici geni in specifiche cellule nervose di specifiche aree del cervello. Queste modificazioni indotte da fattori sociali sono trasmesse attraverso la cultura; non sono incorporate nello sperma e nell’ovulo, e quindi non si trasmettono geneticamente.”
“Nell’uomo, la modificabilità dell’espressione genica dovuta all’apprendimento (per via non trasmissibile) è particolarmente efficace, tanto che ha portato a un nuovo tipo di evoluzione: l’evoluzione culturale. La capacità di apprendimento degli esseri umani è così evoluta che la specie umana è molto più soggetta a mutamenti innescati dall’evoluzione culturale che non da quella biologica.”
Istituzionalizzazione e impatto sul cervello
Questa visione è stata consolidata da alcune evidenze di come, ad esempio, esperienze precoci di deprivazione sociale abbiano un impatto visibile anche a livello neurale.
E’ quanto osservato in uno studio del 2012, condotto presso il Children Hospital di Boston, nel quale sono stati messi a confronto tre gruppi di bambini rumeni: bambini cresciuti in un istituto nel primo gruppo, cresciuti in istituto e successivamente affidati a delle famiglie nel secondo, ed infine bambini che non erano mai stati istituzionalizzati.
Dalle risonanze magnetiche si è osservato come l’essere istituzionalizzati, dunque soggetti ad un maggior grado di trascuratezza psicologica e fisica, si accompagnava ad un minore sviluppo a livello cerebrale, in particolare a livello della sostanza grigia e bianca (per saperne di più, clicca qui).
Inoltre, un aspetto di grande importanza, è dato dal fatto che i bambini passati da un istituto ad una famiglia affidataria presentavano una minore ripercussione negativa sullo sviluppo del cervello: un fenomeno che prende il nome di neuroplasticità e che indica la capacità del sistema nervoso di modificarsi in base agli stimoli dell’ambiente.
A partire da queste considerazioni, un indagine rigorosa della nostra esperienza cosciente può divenire un terreno fertile per comprendere come questo accada e il dialogo tra discipline umanistiche e scientifiche.
Come accade? La Neuroplasticità
Ricapitolando: l’esperienza determina cambiamenti nel cervello e la genetica, infatti, spiega solo il 50% dello sviluppo del nostro sistema nervoso. I meccanismi principali, attraverso i quali il cervello si modifica per mezzo dell’esperienza, sono due: la sinaptogenesi e la neurogenesi.
In altre parole, la neurologia contemporanea si è concentrata sulle modalità attraverso le quali l’attività neurale, correlata al pensiero e alle funzioni cognitive maggiori, plasma sé stessa.
Andiamo a vedere le principali scoperte legate a come l’esperienza vada a modificare il nostro cervello. Scoperte rivoluzionarie, che hanno cambiato il nostro modo di concepire il cervello: non più un meccanismo, a causalità lineare, chiuso nella testa. Bensì un network sempre aperto e connesso al mondo, che cambia la propria stessa organizzazione e struttura per meglio adattarsi alle sfide e possibilità dell’ambiente.
Apprendimento e trasmissione sinaptica
“sinapsi
s. f. [dal gr. σύναψις «collegamento», der. di συνάπτω «congiungere» (comp. di σύν «con» e ἅπτω «unire»)]. – In neurofisiologia, il punto di contatto funzionale fra due cellule nervose o, più esattamente, fra la terminazione neuritica dell’una e il pirenoforo (s. asso-somatica), un dendrite (s. asso-dendritica) o il neurite (s. asso -assonica) dell’altra, al fine di garantire il passaggio dell’eccitamento da un neurone all’altro e in una sola direzione.
Nelle sinapsi cosiddette chimiche, caratteristiche dei mammiferi, il fenomeno è più complesso: il potenziale d’azione a livello della terminazione del primo neurone (terminazione presinaptica) determina, in sostanza, l’apertura delle vescicole sinaptiche che liberano il neurotrasmettitore nello spazio compreso tra le due strutture (spazio subsinaptico o fessura sinaptica); il neurotrasmettitore è captato da recettori specifici situati sulla membrana del secondo neurone (membrana postsinaptica), determinandovi modificazioni fisico-chimiche che generano una corrente in grado di propagarsi a tutta la membrana.”
Treccani

I neuroni hanno una caratteristica unica, rispetto alle altre cellule, ossia la capacità di formare reti: reti verticali ed orizzontali. Tale caratteristica è presente anche nel sistema immunitario, ma nella visione della PNEI, i due sistemi si situano in continuità in una stessa rete psicosomatica.
Le sinapsi che collegano i vari neuroni, possono essere elettriche o chimiche.
Le s. elettriche formano connessioni bi-direzionali estremamente veloci, che portano a risposte automatiche e involontarie (sono le connessioni nervose di base, presenti anche negli invertebrati): richiedono un grosso dispendio di energia.
Le sinapsi chimiche invece trasformano l’impulso elettrico in una particolare conformazione chimica rilasciata nello spazio intersinapitico (lo spazio tra le terminazioni nervose di due neuroni) la quale riverrà ‘tradotta’ dal neurone in un impulso eccitatorio o inibitorio.
L’apprendimento implica cambiamenti nella trasmissione sinaptica. Quando due gruppi di neuroni scaricano simultaneamente, si crea un’associazione tra i due gruppi tramite il rafforzamento delle connessioni sinaptiche. Questo tramite il potenziamento a lungo termine delle connessioni. La sincronia neurale conduce quindi alla plasticità hebbiana.
la regola di Hebb o dell’apprendimento hebbiano:
«se un neurone A è abbastanza vicino ad un neurone B da contribuire ripetutamente e in maniera duratura alla sua eccitazione, allora ha luogo in entrambi i neuroni un processo di crescita o di cambiamento metabolico tale per cui l’efficacia di A nell’eccitare B viene accresciuta»
Donald O. Hebb, The organization of behavior; a neuropsychological theory. Wiley, New York, 1949
In parole più semplici, la regola stabilisce che “due neuroni che scaricano assieme si potenziano reciprocamente” – “What fires together, wires together”.
Hebb introdusse inoltre il concetto di assemblamento cellulare, per definire un gruppo di neuroni che costituiscono un’unità di elaborazione, e ipotizzò che la combinazione delle connessioni tra gruppi di neuroni costituisse l’algoritmo, in continua mutazione, che dettava al cervello la risposta ai diversi stimoli.
In questo modello, ogni neurone può appartenere a diversi assembramenti, ossia attivarsi insieme a molti gruppi neuronali, associati a diverse percezioni.
Seguendo il darwinismo neurale di Edelman (1987) si può affermare che le influenze esterne, ossia l’ambiente, il contesto socio-culturale e in generale le esperienza che facciamo, di fatto selezionano le nostre sinapsi.
E’ qui importante sottolineare tre principi che riguardano la plasticità del cervello, dovuta all’esperienza: la condizione di ridondanza (facendo esperienza, si producono più sinapsi), di utilizzo (le sinapsi mantenute sono quelle frequentemente attive), di sottrazione (le connessioni non utilizzate vengono eliminate).
Rifacendosi a LeDoux (2002), la mente può essere vista come un processo composto da cognizione, emozione e motivazione, che vanno a costituire la cosiddetta triologia mentale e incidono sulle esperienze e sul conseguente funzionamento cerebrale.
L’esperienza che facciamo, quindi, è correlata ad un’attività neurale che non solo seleziona le connessioni sinaptiche, ma conduce anche a un accrescimento della complessità sinaptica, formando nuove connessioni o potenziando quelle esistenti (LTP) (LeDoux, 2002).
Le emozioni (l’arousal emotivo) co-determinano la plasticità?
Le connessioni chimiche ed elettriche vengono definite ‘telegrafiche’, in quanto comportano una trasmissione eccitatoria punto a punto. Tuttavia, nel cervello, i passaggi di informazione avvengono anche in modo differente: al Karolinska Institute, Agnati e Fuxe hanno svolto degli studi sulla ‘comunicazione di massa’ tra varie popolazioni neuronali, definita anche ‘trasmissione per volumi’.
Queste trasmissioni dipendono dalla particolare conformazione chimica del fluido cerebrospinale, ossia è una trasmissione ‘umida’, mediata da messaggi chimici. Tale fluido è in continuo scambio con il liquido extracellulare che bagna i neuroni e tramite questa via viaggiano messaggi chimici(neurotasmettitori, ormoni, ma anche piccole molecole come ioni, aminoacidi, acidi grassi, vitamine)che possono venire anche da molto lontano – trasportati dal sangue in tutto il corpo – influenzando la trasmissione sinaptica. Le connessioni telegrafiche, quindi, svolgerebbero attività specifiche, mentre le trasmissioni per volume determinerebbero il ‘tono di fondo’ dell’attività neurale, come nel sonno, nella fame o nel tono dell’umore in generale.
L’attività cerebrale è influenzata e modulata dall’attività del tronco encefalico. In quest’area ci sono neuroni, con assoni distribuiti in tutto il cervello, che producono i principali neuromudulatori. Tali neuromodulatori, come ad esempio la dopamina o la serotonina, regolano, attraverso un’azione prolungata, la trasmissione tra neuroni a livello delle sinapsi attive nel momento del loro arrivo. I sistemi modulatori sono attivi soprattutto durante le esperienze significative, ovvero sono correlate all’arousal emotivo, che co-determina lo stato chimico del cervello, ovvero l’eccitabilità delle sinapsi.
I modulatori possono facilitare o inibire l’attivazione sinaptica, coordinando l’attività del cervello e regolando in tal modo la plasticità neurale. Inoltre, alcuni neuromodulatori, come la norepinefrina, sono coinvolti direttamente nell’induzione del potenziamento a lungo termine (Izumi, Zorumski, 1999). Vediamo, quindi, come le emozioni giochino un ruolo cruciale nello sviluppo del cervello.
I pensieri possono influire sulla plasticità neurale?
Come scrive LeDoux (2002, p.444): “Se un pensiero è un pattern di attività neurale in una rete, non solo può determinare l’attivazione di un’altra rete, ma può anche determinare il cambiamento, la plasticità. […] Se le cellule che processano gli eventi sensoriali possono essere soggette alla plasticità in conseguenza del tipo di attività che quegli eventi innestano nei sistemi sensoriali, allora perché le cellule che processano un pensiero non potrebbero modificare le connessioni delle cellule con cui sono in comunicazione? Ovviamente lo fanno; dobbiamo semplicemente comprendere in modo più preciso come questo avvenga”.
La corteccia è l’area cerebrale maggiormente sviluppata nell’uomo, correlata con le funzioni complesse riguardanti la memoria di lavoro, l’intenzionalità e la percezione del mondo. Da qui partono le connessioni rientranti in grado di controllare e gestire l’attività delle aree subcorticali.
Il pensiero, quindi, attraverso la sua stessa attività, è in grado di retro-agire sul substrato neurale, modificando quelle stesse strutture da cui origina. In altre parole, il modo in cui pensiamo a noi stessi ha importanti influenze sul modo in cui siamo e su chi diventiamo. Citando LeDoux (2002, p.445): “L’immagine di sé è autoperpetuante”.
La neurogenesi: un pò di storia, evidenze e il ruolo dell’ambiente
a cura di Pasquale Parise, ‘Cervello, neurogenesi e plasticità del cervello’
Fino a quasi tutto il secolo scorso era convinzione radicata nella comunità scientifica che il cervello umano, come quello degli altri mammiferi, si stabilizasse subito dopo la nascita e non potesse avere alcuna possibilità di nuova crescita neuronale e di rimodellamento della propria architettura per tutto il resto dei suoi giorni. Nel 1962 uscì un lavoro su Science di Joseph Altman, un biologo americano, che per la prima volta nella storia della scienza riportava dei dati (ottenuti utilizzando timidina radioattiva per marcare la produzione di nuove cellule nervose), a sostegno della tesi che il cervello dei mammiferi potesse produrre nuovi neuroni.
Questi dati furono criticati e duramente attaccati, in quanto rappresentavano un salto di paradigma rispetto al dogma della indivisibilità dei neuroni e della fissità strutturale del Sistema Nervoso Centrale. Pertanto, i lavori di Altman furono ben presto messi da parte e dimenticati per più di 20 anni. Nella seconda metà degli anni ’80, ad opera di Fernando Nottebhom, altro geniale biologo ricercatore americano, uscirono altri lavori che supportavano la neurogenesi nei cervelli dei canarini, e sottolineavano come questa produzione di nuovi neuroni fosse fondamentale per il canto, avvenisse costantemente nell’età adulta e fosse più evidente negli uccelli in libertà piuttosto che in quelli in cattività.
Negli anni successivi si andarono progressivamente sommando le evidenze della ricerca sulla possibilità per il cervello di produrre nuovi neuroni. In particolare i dati, ottenuti soprattutto da studi effettuati su topi e scimmie di laboratorio, deponevano per la presenza di neurogenesi anche in età adulta in particolare nella regione dell’ippocampo (Shors, 2008).
La questione sulla possibilità di neurogenesi nel cervello umano è stata a lungo dibattuta: il problema era spiegare come potevano inserirsi nuovi neuroni in circuiti sofisticati e ad alta specializzazione senza modificarne l’architettura.
La neurogenesi: evidenze sperimentali nell’uomo
Un dato, che sembrerebbe definitivo, a conferma di questa tesi è stato pubblicato nel 2013 da un gruppo di ricercatori del Karolinska Institute di Stoccolma, guidati da Jonas Frisèn.
L’idea di questi ricercatori é stata quella di sfruttare il Carbonio14 (presente nell’atmosfera in maniera significativa dai tempi degli esperimenti nucleari su suolo durante la Guerra Fredda, 1955-63) e utilizzarlo come marcatore biologico dell’età dei neuroni: il carbonio infatti entra nella catena alimentare e si fissa nel DNA dei nuovi neuroni, che a questo punto possono essere datati come se fossero un ‘reperto archeologico’.
In base a queste misurazioni Frisèn e collaboratori hanno dimostrato che ogni giorno in un umano adulto si formano mediamente circa 700 nuovi neuroni nella regione ippocampale, con un ricambio annuale di circa l’1,75% dei neuroni dell’area, e tale produzione di neurogenesi declina solo lievemente con gli anni. Questo vuol dire che nel corso di una vita di un uomo circa 1/3 dei suoi neuroni ippocampali vengono rinnovati (K.L. Spalding et al, 2013).
Neurogenesi e il ruolo dell’ambiente
Inoltre c’è da considerare che l’evidenza di nuovi neuroni era anche difficile da dimostrare in laboratorio, in quanto la neurogenesi (e anche la sopravvivenza dei neuroni neoformati) é molto legata alle condizioni ambientali. E in animali di laboratorio, in condizioni di deprivazione esperenziale, la neurogenesi non avviene (come aveva intuito Nottebhom), o comunque i nuovi neuroni muoiono rapidamente.
Interessanti da questo punto di vista sono i dati che depongono per un’aumentata neurogenesi (soprattutto a livello ippocampale) in condizioni di maggiore complessità ambientale (Tashiro et al, 2007), in condizioni di maggiore attività fisica (Stranahan et al, 2006), in situazioni di richieste di apprendimento (Hernandez-Rabaza et al, 2009) (é universalmente riconosciuto in letteratura il ruolo dell’ippocampo nelle funzioni di apprendimento e memoria).
Così come è stato dimostrato in animali di laboratorio che situazioni traumatiche perinatali, o nelle prime fasi di vita, determinano una persistente riduzione nella neurogenesi e ridotte capacità di apprendimento in adulto (Lemaire et al, 2000). (Per approfondire, clicca qui).
Come possiamo definire la neurogenesi?
Treccani
Neurogenesi durante lo sviluppo
Ovviamente la neurogenesi è un processo fondamentale nello sviluppo del cervello. Dopo la formazione del tubo neurale (da cui si origina il sistema nervoso), comincia la proliferazione di ‘cellule progenitrici’, dalle quali, attraverso un processo di divisione asimmetrico, si sviluppano due cellule: una nuova cellula progenitrice e un neurone, che esce dal ciclo cellulare e migra nell’area dove svolgerà la propria funzione (processo di differenziamento neuronale).
I neuroni si moltiplicano al ritmo di 4000 unità al secondo, arrivando, al termine della sedicesima settimana do gestazione, a più di 20 miliardi di unità. Questo complesso processo porterà allo sviluppo del cervello adulto, con circa 100 miliardi neuroni.
Neurogenesi nell’adulto
Per quanto riguarda la neurogenesi nell’adulto, diverse ricerche hanno rilevato che l’esperienza può indurre la formazione di nuovi neuroni anche in età adulta.

La neurogenesi negli adulti permane in particolare nell’ippocampo, area di convergenza neurale implicata nella memoria: qui, e nella zona subventricolare dei ventricoli laterali, vengono generate cellule neurali staminali, che se stimolate dall’attività, possono svilupparsi come neuroni integrati (Kempermann, Gast, Gage, 2002). Le cellule staminali neuronali sono capaci di auto-rinnovamento e sono multipotenti, ossia in grado di differenziarsi e divenire futuri neuroni specializzati’.
In altre parole, dopo esperienze ripetute, letteralmente il cervello cresce in modo specifico e corrispondente alle funzioni correlate a quella esperienza. In particolare crescono le aree cerebrali correlate alle azioni svolte, e ripetute, in determinate situazioni altamente emotive.
Accade così che “gli chef hanno un cervelletto più sviluppato“, “i tassisti un’ippocampo «fuoriserie»” e i musicisti “un maggior sviluppo dell’area della corteccia somato-sensoriale connessa alla bocca“. La materia grigia è plastica e la nostra professione, con migliaia e migliaia di ore di pratica/espereinza, riesce a modellarla. (per saperne di più, leggi qui).
L’importanza del ‘prendersi cura’ sullo sviluppo del cervello
A tal proposito, diversi studi stanno dimostrando in modo inequivocabile come il ‘prendersi cura’, ossia quell’insieme di azioni di accudimento affettivo, fin dall’infanzia possa incidere sull’organizzazione neurobiologica del cervello.
Come si può vedere nello schema sottostante:
Tratto da: Il Cesalpino 37/2014 · Epigenetica 9

High-LC, High licking and grooming, Elevata attitudine a leccare e pulire (la prole)
NGFI-A, nerve growth factor-inducible clone A Clone A da fattore di crescita nervoso inducibile
Fonte: McGowan, Meaney, Szyf 2008 (modificata)
Tratto da: Il Cesalpino 37/2014 · Epigenetica 9
L’epigenetica nelle diverse fasi della vita
Ricapitolando, l’epigenetica assume un ruolo peculiare nelle diverse fasi di vita.
Riportiamo un passo di “Epigenetica e Psiconeuroendocrinoimmunologia. Le due facce della rivoluzione in corso nelle scienze della vita” di Francesco Bottaccioli (Era, Milano (2014), tratto dall’interessante articolo “Epigenetica cerebrale, i segni dell’ambiente e della società nel cervello“.
I meccanismi epigenetici intervengono:
- Nell’imprinting del genoma. Questo tipo di segnatura può essere parzialmente reversibile. Il caso più rilevante e noto è quello della riattivazione di uno dei due cromosomi X che viene silenziato, con meccanismi epigenetici, nelle prime fase della vita delle femmine.
- Nello sviluppo dell’embrione, segnando il destino delle diverse cellule che andranno a formare i diversi tessuti e organi. Questo tipo di segnatura è permanente ed è trasmessa alle cellule figlie (ereditarietà mitotica).
- Nella vita dell’organismo sviluppato, segnando in modo stabile processi di adattamento o di disadattamento agli stimoli ambientali. Questa segnatura è stabile ma reversibile. Al tempo stesso può essere trasmessa, con dimensioni e caratteristiche ancora non sufficientemente chiarite, attraverso le generazioni (ereditarietà meiotica o trans-generazionale).
Per approfondire
La Psico-neuro-endocrino-immunologia: una prima definizione
La PNEI è “la disciplina che studia le relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici”. In particolare, studia l’interazione reciproca tra i diversi sistemi (nervoso, endocrino, immunitario) del nostro organismo e il loro rapporto/connessione con quel fenomeno che chiamiamo ‘psiche’ (e che, in questo sito, definiremo ‘esperienza di essere se stessi’).
Mente, sistema nervoso, sistema endocrino e sistema immunitario sono strettamente connessi nel mantenimento dell’allostasi. L’allostasi è la capacità dei sistemi biologici di mantenere la stabilità per mezzo del cambiamento. È un metasistema di regolazione che mantiene la stabilità dei sistemi essenziali per la vita. Sistema messo in luce per la prima volta attraverso lo studio dello stress: fenomeno complesso che ha portato allo sviluppo di nuovi modi di vedere l’organismo da un punto di vista scientifico.
PNEI: spetti storici
“Nel 1936, Hans Selye dimostrò che la reazione di stress (IZ stress e adattamento) è indipendente dalla natura dello stimolo. Ricerche successive rafforzarono il concetto dimostrando che lo stress può essere attivato da fattori fisici, infettivi, psichici. Indipendentemente dal tipo di agente stressante, si attiva una reazione neuroendocrina e neurovegetativa che libera ormoni e neurotrasmettitori dalle surrenali.
A metà degli anni Settanta, il fisiologo tedesco Hugo Besedovsky dimostrò che la reazione di stress, con l’aumento della produzione del cortisolo da parte delle surrenali, causa una soppressione della risposta immunitaria.
Fu stabilito così il primo collegamento biologico tra cervello, stress e immunità. Nella seconda metà degli anni Ottanta, il fisiologo statunitense Edween Blalock dimostrò che i linfociti hanno recettori per gli ormoni e i neurotrasmettitori prodotti dal cervello e che, al tempo stesso, producono ormoni e neurotrasmettitori del tutto simili a quelli cerebrali. Venne così dimostrata la comunicazione bidirezionale tra cervello e immunità. […]
Gli anni Novanta hanno visto una crescita significativa degli studi sulla neurobiologia delle emozioni. La disregolazione del sistema dello stress da parte di emozioni, traumi ed eventi stressanti in genere altera potentemente l’assetto e il funzionamento del sistema immunitario.”
PNEI
Il ruolo delle emozioni: tra mente e corpo
Sempre sul finire degli anni ’90, i lavori del neuroscienziato statunitense Robert Sapolsky hanno dimostrato che l’alterazione del sistema dello stress e la sovrapproduzione di cortisolo possono causare atrofia dell’ippocampo, area cerebrale deputata alla formazione della memoria a lungo termine.
Nell’ambito delle neuroscienze e dell’immunologia, si sta affermando con forza una visione sempre più integrata dell’unità mente-corpo, vista come una rete psicosomatica che coinvolge tutto l’organismo.
In questa rete, le emozioni svolgono un ruolo centrale. Come lo stress, le diverse emozioni attivano l’organismo in modo peculiare e orientato verso differenti scopi, a partire da determinate percezioni, bisogni e/o stati indotti da situazioni che possono essere lette in modo bio-psico-sociale.
In questa prospettiva, i fattori psicologici divengono essenziali, perché determinano la variabilità dei comportamenti messi in atto di fronte ad uno stress, sia perché possono determinare di per sé delle reazioni di allarme (a volte, gli stressor sono letteralmente ‘inventati’ dalla nostra attività mentale).
“le emozioni nascono nel punto di congiunzione tra materia e mente, passando dall’una all’altra in tutte e due i sensi e influenzandole entrambe”.
Pert, C. (1997). Molecules of Emotion. Scribner: New York. (Tr. it. Molecole di
emozioni. Corbaccio: Milano, 2000).
La scoperta dei neuropeptidi
Questa prospettiva integrata, rivoluzionaria in ambito scientifico, sta affiorando con forza grazie alla scoperta dei neuropeptidi, sostanze che fluiscono attraverso il sistema nervoso, endocrino e immunitario, svolgendo diverse funzioni in diverse aree del corpo (per saperne di più, clicca qui).
Sostanze che ‘fluendo’ nel complesso network PNEI influenzano e co-determinano l’attività cerebrale complessiva e mediano la risposta comportamentale di tutto l’organismo.
neuropeptide
neuropeptide s. m. [comp. di neuro- e peptide]. – In biochimica, ogni peptide elaborato e messo in circolo da cellule nervose (per es., le endorfine), con funzione di trasmettitore o modulatore di segnali nervosi.
Treccani

Neuropetdine.
Queste stesse molecole possono comportarsi da veri neurotrasmettitori, oppure possono controllare a distanza più neuroni, sia nel sistema nervoso centrale sia in quello periferico, agendo come veri e propri ormoni (neurosecrezione), o ancora possono condizionare la neurotrasmissione modulando la liberazione di trasmettitori di tipo rapido (neuromodulazione). In ciascuna di queste modalità la stessa sostanza opera effetti funzionali diversi, ancorché il suo meccanismo di base sia sempre lo stesso, servito dallo stesso processo di trasduzione del segnale recettoriale. Questo però realizza modificazioni funzionali in accordo alla specificità della cellula bersaglio.
Ciò ha comportato lo studio e la scoperta di numerosi neurormoni e di neurotrasmettitori nel sistema immunitario (Bottaccioli, 2005). E ha portato al riconoscimento di processi di infiammazione neurogenica, ossia da sostanze di origine nervosa.
L’infiammazione neurogenica sembra giocare un ruolo importante nella patogenesi di numerose condizioni di sofferenza come l’emicrania, la psoriasi, la vitiligine, l’asma, la fibromialgia, la sindrome da fatica cronica, la nevrite, la sindrome dolorosa regionale complessa, l’eczema, la rosacea, la distonia, e la sensibilità chimica multipla.
Le emozioni, quindi, di fatto, connettono mente e corpo in un unico insieme integrato, in cui i diversi sistemi e apparati, esercitano continue influenze reciproche.
Emozioni, stress e salute
Ricapitolando
Nel breve periodo cortisolo, adrenalina e noradrenalina (le catecolammine) hanno un effetto positivo (e attivante) sull’immunità. Nel medio-lungo termine, invece, modificano la risposta immunitaria in modo inadeguato, provocando problemi di salute e/o rendendo l’organismo incapace di combattere in modo adeguato virus e tumori.
Analogamente, la disregolazione dell’asse dello stress può favorire lo sviluppo di malattie autoimmuni di vario tipo. Lo studio dei neuropeptidi sta cambiando la comprensione di come funziona il nostro organismo.
I neuropeptidi, che in genere si legano ai recettori accoppiati a proteine G, sono in grado di modulare l’attività neurale e l’attività di altri tessuti come l’intestino, i muscoli e il cuore.
Esistono oltre 100 neuropeptidi conosciuti, che rappresentano la classe più ampia e diversificata di molecole di segnalazione nel sistema nervoso.
Prospettive di ricerca
Si stanno studiano sempre di più le connessioni tra umore e determinate condizioni patologiche come l’arteriosclerosi e le cardiopatie. Ad esempio, la depressione sembra correlata ad una sovrapproduzione di cortisone e catecolammine, che possono alterare le pareti interne dei vasi sanguigni (favorendo lesioni arteriosclerotiche) o produrre alterazioni vascolari a livello cardiaco.
“La depressione rappresenta il paradigma di uno stress cronico e, unitamente alle problematiche emotive, induce modificazioni fisiche che possono contribuire ad aumentare il rischio di infarto nell’ottica della genesi multifattoriale di tale patologia. In presenza di un disturbo depressivo si osservano diverse modificazioni di alcune funzioni fisiologiche: aumento del cortisolo circolante, iperattività del sistema simpatico con aumento del rilascio di catecolamine (noradrenalina e serotonina) che inducono tachicardia e fenomeni differenziati di vasocostrizione e vasodilatazione, alterazioni della frequenza cardiaca (Heart Rate Variability) con rischio di aritmie, aumento dell’attivazione piastrinica con rischio di trombosi, aumento dei fattori infiammatori rappresentati da alcuni tipi di citochine che concorrono alla formazione di placche aterosclerotiche. In presenza di altri fattori di rischio come ad esempio ipertensione, obesità, diabete o elevati livelli di colesterolo, le modifiche fisiologiche indotte dal disturbo depressivo contribuiscono ad aumentare il rischio di infarto.”
Qual è la relazione tra la depressione e le malattie cardiovascolari? DOTT.SSA LAURA AMODEO
Concludendo, a partire dai primi anni 2000, diversi studi si stanno concentrando sul ruolo della disregolazione immunitaria nei cosiddetti ‘disturbi da somatizzazione’, ai classici sintomi ‘psicosomatici’ e al ruolo di questi processi nei disturbi mentali (ansia, depressione, sindrome da fatica cronica) e nelle malattie fisiche (malattie autoimmuni, cancro) più diffuse.
Bibliografia
Bottaccioli, F. (2005). Psiconeuroendocrinoimmunologia. Red Edizioni: Milano.
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Treccani, Enciclopedia online
SIPNEI, sito ufficiale della Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia